Non lo so, stasera mi sento abbastanza polemica. Al contempo sto cercando di “accendere” l’antropologa che c’è in me, per addolcire la riflessione con cui sto per stendervi.
Di cosa parliamo questa sera? Di sentimenti amorosi (ahi, come sono banale). Che cosa vi aspettate da una tipa cresciuta con la Disney? xoxo.
Procedo.
Mi sto chiedendo, da circa un’ora, perché nel nostro contesto culturale si cresce con l’idea che dobbiamo sperimentare e nutrire sentimenti d’amore tra noi umani? Più specificatamente, come mai si rintraccia l’esigenza di disciplinare le emozioni che scaturiscono dall’incontro con l’altro, per poi costruirci su qualcosa? Nello specifico:
incontro una persona a me sconosciuta;
per una serie di circostanze cattura la mia attenzione;
la frequento;
se le sue esigenze e i suoi bisogni sono in sintonia = siamo due rette perpendicolari e ci intersechiamo in un solo punto;
se, invece, le istanze sono diverse = siamo due rette parallele, cioè tali da non intersecarci in alcun punto.
Bene, abbozzato questo ragionamento in maniera così brutale che manco uno scienziato sociale positivista, continuo la mia analisi. Questo è quello che ci offre la nostra società: legami tra umani e tra sconosciuti che se si ritrovano copulano, se invece, non sono corrisposti soffrono e si martoriano manco fossero un martire cristiano del I secolo dopo Cristo.
Come mai, nella nostra società, esiste questo “ciclo”? Nel senso perché ci crescono con l’idea di amarci o di star male?
Per comprendere queste questioni, ritengo che sia importante adottare un approccio antropologico per far emergere ciò che molto spesso viene occultato quando si parla di amore.
Ci spingono a credere che l’amore sia qualcosa di spontaneo, ma c’è sempre un processo silenzioso di apprendimento culturale. Ad ogni livello e settore veniamo educati sin dalla nascita. Infatti, se qualcuno non si prendesse cura di noi, moriremo. Non credo che un bambino riuscirebbe a sostentarsi da solo. Di conseguenza l’amore, e tutto ciò che vi orbita intorno, esiste perché c’è un discorso culturale. È stato “qualcuno” che ci ha insegnato a vederlo in una determinata maniera, a essere colpiti da un’estetica; a vederla seguendo “gli opposti si attraggono”; a se “avete passioni in comune è prolifico”. Abbracciamo prospettive e assumiamo atteggiamenti senza saperlo. La cultura, il contesto familiare, le esperienze pregresse in coppia formano l’identità degli amanti.
Io vedo poco spazio nel quale possiamo muoverci liberamente. Gli ideali e l’ambiente ci plasmano. Forse una speranza e una prospettiva di studio diversa la riserbo a quelli incontri che si consumano a occhi chiusi dato che l’occhio scruta indaga registra interpreta... lascerei il resto ai sensi restanti. Chissà cosa succederebbe se ci innamorassimo ad occhi chiusi? Coglieremo forse finalmente l’essenza?
Questo quadro teorico finora proposto è incompleto, perché dovrei supportarlo da un’indagine qualitativa. Dovrei intervistare personalmente chi sperimenta queste dinamiche, per arricchire e sostenere i punti trattati…
Comunque, più studio antropologia e più sclero. Ah, e sto arrivando ad una considerazione: l’unica cosa spontanea del mio contesto culturale è la continua e onnipresente disciplinazione del reale.
New word of the day “progressive rock”.
(anche se sinceramente in italiano suona meglio “rock progressivo”).
1 agosto 2021 || Savonarola & predica-menti
Sto leggendo Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss, testo pilastro del pensiero antropologico. Avrei dovuto leggerlo in triennale, ma ho sempre rimandato. Mi era stato riferito che il pensiero dell’autore era troppo complicato e spigoloso. In effetti quando diedi antropologia culturale, non mi piacque molto studiare lo strutturalismo, corrente a cui appartiene l’antropologo.
Comunque, prendo il testo e rimango colpita dal suo modo di scrivere: raffinato, elegante e saturo di parole. Devo ancora finirlo, ciononostante Lévi-Strauss mi sta dando da riflettere.
Perché non incontro intellettuali e studiosi che osservano e interpretano la contemporaneità in maniera così perspicace? A me non interessa che la mia vicina di casa si interroghi, ad esempio, sulla ripercussione sociale dell’esistenza di centri commerciali nella manciata di pochi kilometri, per Dio (!) Ma quando arriverà qualcuno che parlerà di ciò che conta, anziché crogiolarsi nella fatuità cronica?
Se conosci qualcuno (magari così cool come Lévi-Strauss da giovane, vedi sotto) fammi sapere.
|| Ricorda che la dominazione/estraniazione dall'evento risiede nella sua ripetizione simbolica.
Come mai si rintracciano poche cantautrici italiane?
Il mondo dei sentimenti e delle emozioni è raccontato in maniera frequente dagli uomini, penso a De Andé, Guccini, Battiato, etc. La mia domanda non è mossa da rivendicazioni femministe - per amor del cielo - la sfera affettiva è una questione esistenziale e universale. Nell’ascolto dei brani scritti da questi, rintraccio che:
1) riescono a cogliere ed intepretare, magistralmente, la condizione umana;
2) ma la narrazione si snoda secondo una prospettiva maschile.
Ascoltare De André che parla di amore è un’esperienza che non pensavo potesse essere, emotivamente, destabilizzante. Il modo in cui ha impostato la melodia, fa sì che ci sia immedesimazione tra testo e suono. C’è, però, qualcosa che manca e che non mi permette di empatizzare a pieno... e che si riconduce alla domanda di apertura...
Non cerco, ovviamente, l’emotività femminile nei brani di De Andrè. Ascoltarlo mi ha fatto realizzare che, a livello generale, mancano donne cantaurici così d’impatto..........
O forse: sono io che sono stata “inculcata” a considerare soltanto questi come interpreti anziché volgere lo sguardo altrove?
| Memorie dal campo(santo) |
Da quando nonno è andato via frequento più spesso il cimitero. Prima ero solita andarci solo per la ricorrenza istituzionale, nei primi di novembre.
A ventiquattro anni, mi approccio a questo luogo con una mentalità diversa. Da una parte qui riposano i miei antenati, gli amici di famiglia e le persone che non ho conosciuto, dall'altra sono occasioni per riflettere su tematiche di ordine antropologico e sociale.
La morte e il dolore sono due concetti centrali nello studio dell’uomo. Ad esempio, Michelangelo Giampaoli nel saggio Paris. Una capitale alle porte della città dei morti studia il Pèere-Lachaise di Parigi. Si tratta del cimitero più conosciuto e visitato al mondo, dove «quotidianamente entrano ed escono differenti flussi di persone, soprattutto turisti data la presenza di monumenti in onore di persone famose (2011)», per citare qualche nome Oscar Wilde, Édith Piaf, Jim Morrison. Nel cimitero sono presenti pratiche a scopo commemorativo che economico: «all’interno del Pére-Lachaise domina un sistema di economia informale che ruota attorno» a bar, ristoranti o a coloro che si propongono di fare da «guida» turistica per addentrarsi nelle vie del cimitero.
Giugendo a me. Nel piccolo cimitero di paese che frequento sicuramente non possono verificarsi queste condizioni, dato lo scarso numero di fequentatori. Ciò che invece rintraccio è il particolare legame che si instaura tra chi resta e chi se ne va. È un legame che nasce dalla frequentazione e dal sentimento empatico verso le sofferenze altrui. I vivi alimentano l’esistenza di una persona, seppur non sia più presente a livello fisico. Ho sperimentato anch'io questa condizione.
Nel corridoio che porta alla tomba dei miei nonni paterni, si trova una ragazza a cui mia madre faceva il doposcuola. Ho iniziato ad affezionarmi a lei e alla sua storia senza averla mai conosciuta, "instaurando" un ricordo-immagine di lei. Comprendo solo adesso quanto questo luogo sia sottovalutato...
«L’evento-morte, la presenza del cadavere non è soltanto distruzione e crisi del senso ma, per certi versi, è all’origine della costruzione del significato dell’esistenza (Favole, Lingi 2004)».
In questi luoghi i vivi danno continuità alle esistenze interrotte. I frequentatori puliscono, ordinano e impreziosiscono le lapidi, gli altari e nel frattempo parlano e intavolano discorsi tra di loro che tra chi “sta lì”, riattualizzando così le persone e le loro storie:
«Se da un lato il morire è un processo disgregativo ed entropico, che introduce caos e disordine […] dall'altro – mediante i significati simbolici che riceve secondo modalità transculturalmente specifiche – esso genera forme sofisticate di organizzazione, ordina luoghi, connota spazi, costruisce cosmologie, orienta comportamenti: riannoda fili di senso sulla natura stessa della vita (2004)».
Bibliografia
Favole A., Ligi G., 2004, L'antropologia e lo studio della morte: credenze, riti, luoghi, corpi, politiche.
Giampaoli M., 2011, Paris. Una capitale alle porte della città dei morti, in Antropologi in città (a cura di Stefano Allovio).
Pietro: Non essere scema. Eri sola, è vero, senza soldi, senza lavoro, e ti disperavi, ma a me non facevi pietà. Io non ho mai sentito, guardandoti, nessuna pietà. Ho sempre sentito, guardandoti, una grande allegria. E non ti ho sposato perché mi facevi pietà. Del resto, se uno dovesse sposare tutte le donne che gli fanno pietà, starebbe fresco. Metterebbe su un harem.
Giuliana: Già. Questo è vero. E perché mi hai sposato, se non mi hai sposato per pietà?
Pietro: Ti ho sposato per allegria. Non lo sai, che ti ho sposato per allegria? Ma sì. Lo sai benissimo.
Giuliana: Mi hai sposato perché ti divertivi con me, e invece ti annoiavi con tua madre, tua sorella, e la zia Filippa?
Pietro: Mi annoiavo a morte.
Giuliana: Lo credo, povero Pietro!
Pietro: Adesso sei tu che hai pietà di me?
Giuliana: Però non è che dovevi stare sempre con loro? Andavi in giro, viaggiavi, avevi ragazze?
Pietro: Certo. Viaggiavo, andavo in giro, e avevo ragazze.
Giuliana: Ragazze noiose.
Pietro: Ragazze.
Giuliana: E io? Io perché ti ho sposato?
Pietro: Per i soldi?
Giuliana: Anche per i soldi.
Pietro: Credo che uno si sposa sempre per una ragione sola [...] ed è quella che importa.
Giuliana: Allora io non l’ho ancora ben capita questa ragione, per me.
Pietro: Non mi hai detto: Sposami, sennò chi mi sposa?
Giuliana: Sì, e be’?
Pietro: Be’, non era questa la ragione? Che volevi avere un marito? Comunque fosse? Chiunque?
Giuliana: Chiunque. Sì.
(Ti ho sposato per allegria, 1967)
Qualche giorno fa ho visto La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, film cult di inizio anni ’70. Oltre che a rappresentare la vita di un operaio, Lulù Massa, credo che questo film metta bene in evidenza le contraddizioni del pensiero politico che possa essere di destra o di sinistra. È infatti un film polemica che descrive i fatti sociali e culturali di quegli anni (es. la vita in fabbrica, il ruolo dei sindacati, l'edonismo consumista) astenendosi da moralismi o ipocrisie.
Mi hanno colpito alcune scene.
[Segue sotto]
Militina: Su questo pianeta pieno di ospedali, di manicomi, di ospedali, di fabbriche, di caserme, di autobus. Il cervello se ne scappa. Sciopera. Sciopera. Sciopera.
Lidia: Te senza i padroni cosa saresti? Un morto di fame saresti. E ci avresti pure un avvenire sicuro.
[Lulù, operaio protagonista di questo film, è stato appena licenziato e va in università dagli studenti di sinistra. Questi poco prima avevano fomentato gli operai affinché quest’ultimi riconoscessero lo sfruttamento da parte dei “padroni”. Segue questo dialogo].
Lulù: Ehi sono io Lulù. Lo sai che ho perso il posto?
Studente di sinistra: Eh lo so. Lo so.
Lulù: Stai qui a dormire. Ma stamattina potevi venir lì.
Studente di sinistra: Non possiamo star lì.
Lulù: Ma almeno tu.
Studente di sinistra: Faccio quello che posso. Siamo ancora in pochi. Ieri eravamo nelle officine. Oggi nelle scuole. Noi cerchiamo con il nostro lavoro di far esplodere le contraddizioni. Per cambiare questo sistema di vita.
Lulù: Ma mi avete cambiato a me. Mi avete fatto perdere il posto.
Studente di sinistra: È che fino a quando obbedisci al padrone nessuno ti tocca. Poi ad un certo punto prendi coscienza e sei fottuto. Ma questo lo dovevi sapere, no Lulù? Non è una novità.
Lulù: Mica scemo! Lo so anch’io come stanno le cose. Andiamo venite, con questi studenti davanti alla fabbrica.
Studente di sinistra: Siamo divisi. Siamo pochi.
Lulù: Pochi? Io devo mangiare! Capito?
Studente di sinistra: Il tuo è un caso individuale. Personale. Non è questo quello che ci interessa. Noi vogliamo un discorso di classe. Vuoi un discorso personale? Vuoi?
Lulù: Cosa me ne frega a me del discorso personale?
Studente di sinistra: Toh! Guardami in faccia! Ho 30 anni. Guarda come sono ridotto! Sono fuori corso.
Lulù: Non gridare.
Studente di sinistra: Ho fatto tre esami.
Lulù: E io ho fatto intossicazione da vernici.
Studente di sinistra: E io c’ho la piorrea. Va bene?
Lulù: Cosa devo fare adesso?
Studente di sinistra : A me che mi frega di che devi fare. Quello che ti pare. Ci sono mille modi di vivere. Prova a cambiare. A non vivere come sei stato abituato. Resta qui con noi. Oramai sei disoccupato. Puoi fare quello che vuoi.
Lulù: Guarda. Non far lo spiritoso. Già ho preso io delle decisioni. Cosa devo fare da me. Arrivederci. Tante Belle cose.
Studente di sinistra 2: Massa ma perché non resti qui?
Lulù: Te sei studente.
Studente di sinistra 2: Sì. È vero sono studente.
Lulù: Te sei studente...
Studente di sinistra 2: È logico. Io lavoro e mi pago gli studi.
Lulù: Fai largo va. Fai andar via la gente. Studenti?! Vai a studiare. Va’. Buon studio. Arrivederci.
prossimo work life goals:
🔸️mettersi fuori da Zara indagare la sua estetica, rappresentazione, incorporazione.
ostinazioni & banalità
Perché è così difficile bloccare e far tacere il sordido meccanismo che si aziona nel momento in cui tutto sembrerebbe orientato a dedurre la “realtà”... ma che però nella realtà si verifica che il tutto è frutto di una proiezione mentale.
Davvero, a volte, ma solo in specifici casi, vorrei avere un super-power... per silenziare il complesso “giudicante” che affiora quando mi rapporto a circostanze che farebbero supporre cose su cose di altre cose.
"Diari'' di campo
Margaret Mead, Sto proprio bene e resisto al clima con lodevole coraggio.
Alfred Métraux, Scrivo queste righe sdraiato nel mio sacco e illuminato da una stenta candela
Claude Lévi-Strauss, Mi sembrò che i problemi che mi tormentavano potessero fornire materia per un lavoro teatrale.
Paul Rabinow, Il mondo era diviso in due: quelli che avevano fatto ricerca sul campo e quelli che non favevano fatta